I robot non rubano occupazione, neanche tra le mansioni più routinarie
Inapp, Università di Trento e Ispat indagano il rapporto tra addetti e innovazione tecnologica. Nelle attività connesse a quest'ultima gli addetti salgono del 50%. Ad essere sostituite sono soprattutto le mansioni che prevedono sforzo fisico.
I robot ci ruberanno il lavoro? La convivenza tra addetti e innovazione tecnologica è da tempo dibattuta: l’automatizzazione dei processi spazzerà via l’occupazione? O la richiesta di figure sempre più specializzate e professionalizzate per governare i nuovi modelli di produzione riuscirà a bilanciare la situazione? Una risposta a questi interrogativi arriva dallo studio “Stop worrying and love the robot: An activity-based approach to assess the impact of robotization on employment dynamics“, curato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), dell’Università di Trento e dell’Istituto di Statistica della Provincia di Trento (ISPAT), presentato nell’ambito del Workshop “Firms and Workers at the Crossroad: Automation and Market Power” in chiusura dell’omonimo progetto di ricerca finanziato dalla Fondazione Caritro di Trento. Ed è una risposta speranzosa, sulla base di quanto avvenuto nel settennato 2011-2018 preso in considerazione nell’analisi: l’introduzione di robot industriali non ha prodotto effetti negativi sul tasso di occupazione, anzi seppur in misura contenuta ha contribuito alla riduzione del tasso di disoccupazione.
Il bilancio complessivo tiene in conto dinamiche variegate a seconda delle “mansioni” dei lavoratori, come era logico aspettarsi. Ma anche tra le categorie occupazionali potenzialmente esposte al rischio di sostituzione da parte dei robot industriali non sembra nel complesso emergere un contraccolpo dall’introduzione dell’automazione. D’altra parte – spiega lo studio – i posti di lavoro destinati agli “addetti ai robot”, ossia a tutte quelle figure professionali che, a diversi livelli, si occupano della programmazione, dell’installazione e della manutenzione dei robot, sono aumentati di circa il 50% in poco meno di dieci anni, con un aumento significativamente maggiore nelle aree caratterizzate da un ricorso più intenso ai robot industriali.
I ricercatori mettono in evidenza il rapporto tra adozione di robot e ricaduta occupazionale. Se il primo fattore sale dell’1%, la quota locale di “operatori di robot” registra un incremento di 0,29 punti percentuali: questo effetto spiega interamente l’aumento di circa il 50% di questi lavoratori. In pratica, se le imprese investono in innovazione tecnologica cresce il numero di lavoratori a questa complementari. Ma l’effetto benefico si estende, nel nostro Paese, anche alle mansioni routinarie: i risultati dell’indagine suggeriscono che nelle zone a più intensa robotizzazione la quota di occupazioni routinarie di tipo cognitivo sia addirittura aumentata.
Diverso il quadro se ci si concentra sul lavoro “fisico” oltre che routinario. In questo caso, infatti, la sostituzione con i macchinari appare evidente: l’introduzione di robots sembra aver contribuito – ricostruisce ancora lo studio – a ridurre in misura statisticamente significativa il peso relativo delle occupazioni che prevedono un intenso impegno del busto e, in particolare, dei muscoli addominali e lombari. Essa risulta invece aver favorito la crescita, seppur in modo più debole, della quota di professioni associate al controllo e all’utilizzo di macchinari e, in generale, complementari ai processi di automazione.
“Questa indagine è molto significativa perché dimostra che non bisogna avere paura dei robot, che possono costituire più un’opportunità che uno svantaggio per il mondo del lavoro – ha spiegato il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda – D’altra parte la tecnologia pervade già ogni ambito professionale con esiti diversi a seconda delle situazioni, dalla medicina all’agricoltura, dalla meccanica al settore assicurativo. I “robot” già ora rendono il lavoro più efficiente e al tempo stesso esonerano le persone da compiti ripetitivi, poco qualificanti e usuranti, permettendo loro di occuparsi di mansioni più gratificanti (e produttive).
Tuttavia resta appeso il tema di tutte quelle occupazioni che vanno riqualificate con un profondo reskilling proprio per l’utilizzo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Se nel secolo scorso il conflitto fra capitalisti ed operai è stato molto aspro, oggi e in futuro bisogna evitare un nuovo conflitto tra robot e lavoratori, ma bisogna impegnarsi nell’elaborare appropriate strategie affinché la riduzione dei coefficienti tecnici di produzione legata alle nuove tecnologie non dia luogo al fenomeno della “disoccupazione tecnologica”.
Secondo Stefano Schiavo, Direttore della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento che organizza il Workshop “la robotizzazione è uno dei numerosi global driver che, influendo su imprese, lavoratori e territori, contribuisce a modificare il tessuto socio-economico italiano. L’analisi empirica di questi fenomeni globali è un elemento imprescindibile per individuare soluzioni di policy efficaci e per procedere con il reskilling, ancora più urgente in considerazione dei cambiamenti indotti dalla pandemia. Anche per questo la relazione tra Covid e automation è già ora oggetto di ulteriori approfondimenti da parte dei colleghi che hanno condotto lo studio.”
Per approfondire, leggi l’articolo di Repubblica.