Smart Working senza esercitazione
#iorestoacasa
Sulla destra c’è la cucina e ho il divano alle spalle. Il mio ufficio è il tavolo da pranzo, lo spazio è maggiore rispetto alla scrivania in Restart, ma la sedia senza ruote rende l’ufficio casalingo un tantino statico. Grazie alla chat posso parlare con i miei colleghi, ma la pausa caffè in solitaria è bizzarra.
È il mio secondo giorno di Smart Working e non ho ancora deciso se mi piace oppure no. Poco importa perché con il decreto del Presidente Conte di lunedi 9 marzo, era nostra responsabilità trasferire in smart working tutti i lavoratori la cui mansione lo permetteva.
Ecco che l’ufficio Software di Restart si è trasferito in una casa di Navacchio, in un appartamento non lontano dall’aeroporto di Pisa, in un terratetto a pochi passi dal lungomare livornese e in un’altra mezza dozzina di abitazioni. L’ufficio comunicazione si è trasferito in un paesino sulle colline e i posti vuoti in azienda vanno crescendo.
Restart ha voluto fin da subito rispondere in maniera concreta all’appello delle istituzioni #iorestoacasa. Con il reparto IT aziendale siamo riusciti, in poco più di otto ore, ad implementare un sistema che permettesse di lavorare da casa. I colleghi hanno messo a disposizione i propri PC personali per rendere il passaggio più semplice, e l’esperimento si può dire riuscito per adesso. Grazie alla puntualità nell’organizzazione siamo operativi al 100%, operativi e smart.
Andare in ufficio per noi italiani, e non di meno per noi di Restart, è una specie di rito: la mattina ci prepariamo, qualcuno si fa 40 o 50 minuti di strada, ed arriviamo in sede dove incontriamo quei colleghi con i quali siamo abituati a condividere una dose più che considerevole del nostro tempo. Si lavora insieme, in openspace, si fanno riunioni, ci si confronta, i giovani imparano e i meno giovani anche. Si incontrano clienti, fornitori, persone brillanti e meno brillanti che ci mettono di continuo di fronte a sfide nuove. Poi c’è il caffè, i pasticcini per i compleanni e gli avvenimenti importanti, la pausa pranzo in cui ci si siede a tavola, insieme.
Con lo smart working un bel po’ di queste cose sono diverse: ci si può svegliare un po’ più tardi (perché si recupera il tempo del viaggio per l’ufficio), si monta la postazione in cucina, in salotto, o nella stanza studio (per i più fortunati che ce l’hanno) e poi si comincia a lavorare. Dopo qualche ora diventa normale chattare con i colleghi e persino videochiamarci. La videochiamata infatti, per chi non è abituato, è uno strumento che inizialmente può essere percepito come ostile. La webcam non cela segreti: eccoti lì a schermo intero col tuo bel faccione e tutti i dettagli della stanza dietro di te. Certo, all’inizio è un po’ traumatico: ma quale cambiamento non lo è? È solo una questione di due o tre chiamate e il disagio passa e anzi, inizi a rivalutare quello strumento magico che ti permette di avere il collega nella tua cucina anche quando è a chilometri di distanza.
E per qualcuno, anche in smart working l’ufficio è in condivisione. In un momento così particolare come quello che stiamo vivendo, non è difficile che in una stessa abitazione ci siano due persone che lavorano in smart working, e magari anche uno o due bambini costretti a casa dalla chiusura della scuola materna. Ed ecco che non solo hai un compagno di scrivania e una sala giochi in salotto, ma quel compagno parla di cose che non c’entrano assolutamente niente col tuo lavoro. E allora devi sfoderare tutte quelle abilità di concentrazione che l’ufficio openspace ti ha insegnato, e che ringrazi il cielo di avere.
Come dicevo, è il mio secondo giorno di smart working e non ho ancora deciso se mi piace oppure no. Una cosa è certa: in questo momento di emergenza in cui la salute nostra e di chi ci sta intorno è potenzialmente in pericolo, è uno strumento preziosissimo.
E poi alla base di ogni progresso c’è sempre un po’ di cambiamento.